13.12.14. La questione ha un precedente.
A inizio 2013, nel REGNO UNITO, per incentivare la musica dal vivo fu introdotta una liberalizzazione da “permessi” non meglio precisati nei locali fino a 200 posti, in genere pub e jazz club. Sostanzialmente si trattò di esenzione da “permessi” riconducibili all’ordine pubblico.
Ma la scarsa conoscenza della materia aveva fatto sì che, concentrati sulla espressione: “liberalizzazione dai permessi”, si era caduti in un grande equivoco. Infatti tutti erano convinti che nel Regno Unito avevano abolito il permesso della “loro” SIAE e quello del “loro” Enpals (la famigerata Agibilita’).
Ne seguì tutto un fiorire di appelli per una analoga liberalizzazione anche da noi.
In realtà, i diritti d’autore e i contributi previdenziali non c’entravano assolutamente!
Ebbene, il 3 ottobre 2014, nel contesto di un decreto denominato: VALORE CULTURA, è stato persino introdotto un emendamento “copia e incolla” di quello inglese. Sicuramente un primo passo, ma l’equivoco di cui sopra continua ancora…
Vale la pena di ricordare, infatti, che in un primo momento (ad agosto), erano caduti nell’equivoco persino alcuni parlamentari che – evidentemente mal suggeriti – già nell’allora cosiddetto DECRETO DEL FARE avevano tentato di inserire questo emendamento con in più proprio l’esenzione dalla SIAE. L’emendamento, ovviamente, fu bocciato. Infatti nessuna legge potrà mai esonerare chicchessia dal pagamento dei diritti d’autore, che sono il compenso di quella categoria di LAVORATORI che sono i compositori. Sarebbe anticostituzionale. Altra cosa sarebbe intervenire sulle tariffe italiane che sono le più alte del pianeta.
Ma questa è altra storia e vi rimandiamo al nostro MANIFESTO (cap. 3)
Comincia finalmente a lumeggiare la chiarezza. In Inghilterra sono erano stati tolti solo cavilli burocratici che assimilavano i piccoli pub ad autentiche imprese di spettacolo.
Questi cavilli esistono anche da noi, ma qui, i permessi SIAE e il certificato di Agibilità Enpals (oggi Inps/exEnpals) sono talmente ossessivi che sui permessi di ordine pubblico, specie nei piccoli locali, si tende quasi sempre a sorvolare.
Le piaghe dei nostri gestori (e di riflesso dei musicisti) sono la SIAE che, per via delle alte tariffe, depaupera i budget impedendo ai musicisti di essere remunerati decorosamente e, nel contempo, frena le attività musicali culturali andando paradossalmente persino contro i propri interessi (concerti non fatti = diritti d’autore non incassati) e l’Enpals, che oltre alla burocrazia difficilissima da districare, è impossibile da pagare su paghe da fame. Forse, se la SIAE costasse meno, i denari per i contributi (cosa molto più importante) potrebbero anche saltar fuori. Ma è un sogno.
Ne consegue che, l’emendamento “copia e incolla” di quello inglese, pur essendo un primo segnale di attenzione da parte delle istituzioni, è poco più di un palliativo.
Per concludere è bene spendere due parole sui diritti d’autore e sui contributi prividenziali nel Regno Unito.
Da loro (in Inghilterra), i “nostri” problemi (SIAE e ENPALS) non esistevano, non esistono e non esisteranno,… a prescindere dalla “liberalizzazione”.
Lì, Per fare un concerto dal vivo si pagano così pochi euro (o pound) che i pur sacrosanti diritti d’autore non rappresentano un problema. Anzi, essendo proporzionali ai compensi dei musicisti (e non all’incasso lordo, alle sedie, atc) sono un incentivo affinché i musicisti vengano ben remunerati. A conti fatti, si paga meno del 10% del costo della musica. Come dire che, se un gruppo costa 300 euro, i diritti d’autore sono circa 20/30 euro. Per un musicista singolo che costa 100 euro in Inghilterra si pagano 7/8 euro, e tutto on-line, spesso con abbonamenti (come da noi per lo stereo nei locali), e senza inutili perdite di tempo presso le agenzie.
Anche i contributi previdenziali nel Regno Unito non sono un problema, per il semplice fatto che al di sotto di una certa fascia reddituale (quella minima di sussistenza) i contributi non sono obbligatori! E non solo nei locali, ma per qualsiasi attività precaria. Da noi, invece, i contributi si pagano sempre, come le tasse (fatta eccezione che per i privilegiati doppiolavoristi dello scellerato comma 188 e, nelle altre categorie, per il lavoro occasionale – legge Biagi).
Viene l’amaro in bocca nel pensare che da noi, l’INPS e soprattutto l’ex INPDAP sono così malconci per via delle “falle” aperte in passato dal “sistema retributivo” ed altri sprechi, che i denari dei tanti precari servono per evitare il fallimento.
Come dire che i denari dei contributi dei poveri servono per le pensioni di coloro che stanno bene (o comunque stanno meglio) SOPRATTUTTO per le arcinote “pensioni d’oro” di cui tanto si parla ultimamente.
Questa è l’ITALIA, raro esempio di uno Stato che si dichiara sociale, ma che tale lo è ben poco.
Vittorio Di Menno, segretario nazionale.